UTOPICA

Mostra personale di
Alberto Manzetti

a cura di Azzurra Piattella
dal 14 al 29 settembre 2013

Nel mese di novembre del 1956, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, allora soprintesa dalla carismatica personalità di Palma Bucarelli, dedica un’esaustiva mostra retrospettiva a Piet Mondrian, esponente di primo piano del neoplasticismo e fondatore nel 1917, insieme con Teo van Doesburg, della rivista De Stijl. Le cinquantaquattro opere scelte per la grande esposizione destano una particolare attenzione da parte della critica italiana e della moltitudine di appassionati che sino ad allora aveva avuto modo di accostarsi in maniera diretta ai risultati delle concezioni teoriche d’avanguardia e della filosofia estetica dell’autore olandese solo in occasione di un paio di edizioni della Biennale di Venezia e precisamente alla XXIV edizione del 1948 e alla XXVI del 1952.

Non perde questo importante appuntamento un preparato artista, Alberto Manzetti, che a dispetto della sua giovane età ha già alle spalle anni di studi classici e di formazione artistica acquisita nella storica sede di via Ripetta a Roma, alla quale era approdato dopo una selezione che ancora ricorda con una punta di orgoglio. Lì aveva seguito le lezioni di Guttuso, Montanarini, Purificato, Greco, Guzzi, Marini. Proprio Marini gli aveva presentato la sua prima mostra personale, inaugurata a vent’anni.

Alla luce dei fatti e del successivo percorso artistico e professionale di Manzetti, appaiono palesi l’impatto percettivo e il calibro dell’esperienza personale vissuta in occasione della visita alla storica retrospettiva di Mondrian. Le molteplici “coincidenze cerebrali” denotano un’affinità ideale certamente non trascurabile che trova riscontro nella comune ispirazione tratta dalla Natura intesa come fonte di verità e come oggetto di preoccupazione per gli sconfinamenti antropici, nell’innata propensione all’astrazione, nell’organizzazione razionale, quasi matematica, delle forme. Il radicato legame con gli studi estetici e psicoanalitici (Manzetti effettua approfondite ricerche su “Freud e Parte” e ne fa oggetto di conferenze) conduce entrambi verso un approccio minimale alla tela e a una semplicità, solo illusoria, delle costruzioni compositive nelle quali si ravvisa una costante volontà di armonizzare e bilanciare le proporzioni, i rapporti cromatici, grafici e volumetrici.

A ventidue anni (tanti ne aveva nel 1956) Manzetti, già artista indipendente e studente della Facoltà di Architettura, carattere risoluto, schietto e riservato, respira a Roma gli esiti dei fermenti culturali degli anni Trenta e Quaranta, osserva il linguaggio espressivo del Gruppo Forma1 e percepisce le avvisaglie della futura Scuola di Piazza del Popolo. L’autonomia mentale diviene da subito il suo punto di forza. Per decenni insegna Disegno e Storia dell’Arte, ma non la disciplina pittorica (che da sempre pratica personalmente) poiché consapevole che l’allievo vada reso edotto, instradato e non convinto.

Sfavorevole alla traduzione verbale delle regole pittoriche mediante la spiegazione sistematica, assetato invece di scambio concettuale e di rinnovato confronto tra profili psicologici e artistici differenti, Manzetti ha sempre ricordato, nella sua attività di docente, l’aforisma di Guttuso: “ci vuole un’ora d’insegnamento, con due si rovina l’allievo”. Nella sua lunga carriera di pittore, dunque, sperimenta da solo un procedimento che perfeziona nel tempo appositamente per il suo potenziale comunicativo: le preparazioni sempre al nero sono un elemento imprescindibile, sconosciuto sovente anche ai suoi più attenti estimatori. Dapprima gli smalti,‘ poi gli acrilici diventano un’irrinunciabile costante.

La tela è sempre molto rasata, davanti allo sguardo il nero assoluto, nella mente pochi riferimenti iniziali (il 5% del quadro afferma l’autore) e in mano una matita bianca e la carta gommata. Inizia a definire le forme embrionali, progetta e compone come un architetto. ll pennello entra in gioco da subito. Non mescola i colori come le seducenti variabili tonali lascerebbero immaginare. Realizza piuttosto delle sovrapposizioni successive di strati cromatici che lascia asciugare prima di intervenire nuovamente. Più chiara e luminosa e la campitura, maggiore è il numero di strati applicati in quell’area del dipinto. E’ la variante moderna dell’antico metodo delle velature.

Lo strato più superficiale, via via diluito ad acqua quel tanto che serve e senza arrivare a un’indesiderata sgocciolatura, funge da cristallo protettore che custodisce la sottostante pennellata più scura. Si azzera così, con tale procedimento, qualsiasi chiaroscuro o sfumatura. Le campiture si conservano quanto mai definite e perfettamente delimitate. La prospettiva è annullata, l’aggetto, ove necessario, si ottiene lavorando sulle linee strutturanti e sulla decisa giustapposizione cromatica. Ecco riaffiorare l’essenziale dell’arte di Mondrian.

Cosa si scorga di reale nelle realizzazioni di Manzetti è piuttosto evidente. La bibliografia specifica e le recenti recensioni generate in occasione delle molteplici mostre (es. Milano, Palazzo Marino – Roma, Tartaglia Arte – Spoleto, Galleria Germanico – Tivoli, Scuderie Estensi…) hanno in passato sovente sottolineato il contenuto delle sue composizioni e così mi limito a osservare con occhio ammirato le architetture di città utopiche, che non vedremo mai, ma che disquisiscono sulla genuinità del paesaggio dell’infanzia (Manzetti accompagnava spesso il padre veterinario nelle romite, affascinanti località agresti e montane molisane), dell’orrore edilizio che spesso invalida le metropoli come i piccoli centri, dell’urgenza di comunicare il bisogno di salvare il territorio dall’uomo e I’uomo dalle sue false ambizioni. Un sogno popolato di aquiloni che sollevano città e persone, liberandole dalla piaga inguaribile della mediocrità.

Orari di visita: dal martedì alla domenica dalle 17:30 alle 20:30, venerdì e sabato dalle 18:30 alle 22:30 | Ingresso libero